"L’arte culinaria etrusco-romana
e il significato del banchetto
da rito sacro a momento di aggregazione sociale
"
di Massimo Savarese
Purtroppo
la paleoetnologia e l’archeologia non ci offrono la
possibilità di "ricostruire" l’arte culinaria degli Etruschi, che, al
di là di tracce di alcune materie prime alimentari vegetali e animali rinvenute
negli scavi, per esempio, dell’area di Bolsena, non
hanno lasciato che testimonianze mute.
Inoltre
gli affreschi sulle pareti delle tombe ipogee celebranti i banchetti funebri in
onore di nobili defunti, come quelli della Tomba Golini
di Orvieto, non potranno mai restituirci le loro ricette culinarie, ammesso ne
esistessero. Non possediamo infatti degli Etruschi documenti scritti sulla
materia in questione, così come testi di letteratura in generale, per cui non
siamo in grado neppure di conoscere se si fossero mai dati pena di elaborare e
codificare ricette gastronomiche.
Inventare
una cucina etrusca "vera e propria" è impresa improponibile, essa può
essere al più concepita quale "ipotesi storica", che deve
necessariamente rifarsi all’arte culinaria degli antichi romani d’epoca
repubblicana, dati i molteplici debiti e punti di contatto delle due civiltà e
delle due culture, la prossimità geografica dei rispettivi territori abitati
dalle due etnie, nonchè delle risorse vegetali, faunistiche, ittiche e ovicaprine,
della selvaggina da pelo e da piuma.
Va
comunque sottolineato il carattere prevalentemente agricolo dell’economia
etrusca di contro a quella romana del periodo repubblicano o, meglio, tardo
repubblicano, propria d’una società più complessa, di tipo misto agricolo e
pastorale.
Abbiamo
quindi adottato l’unico criterio possibile nella realizzazione del menù
ispirandoci, più che imitandole pedissequamente, ad alcune ricette degli
antichi romani per evitare che il buffet divenisse una indigesta rassegna
culinaria museale, tenendo presente che più che negli
ingredienti la differenza sostanziale fra il nostro gusto e quello degli
antichi è nei condimenti e nelle salse troppo speziate
e oltremodo manipolate dei romani.
E’
più che probabile che una pietanza condita con del "GARUM", liquore
filtrato prodotto dalla macerazione di strati di interiora o di pezzi di pesci
alternati a strati di erbe aromatiche e di sale lasciati a decomporsi e a
fermentare al sole in un doglio, grosso recipiente di forma globulare, anche
ammessane la riproducibilità secondo i dettami epocali, non possa essere
tollerata dai nostri stomachi, pur supponendo che il "GARUM" fosse
usato dai cuochi romani con molta parsimonia.
Il
pensiero poi che questo condimento basilare fosse quasi sempre per la sua
asprezza temperato con miele (in luogo dell’odierno zucchero) o da dolce
"DEFRUTUM", mosto di vino bollito fino ad essere ridotto della metà o
di due terzi del suo volume originale, non indurrebbe di certo le nostre
ghiandole salivari a secernere la classica "acquolina" in bocca.
Onde
evitare tali inconvenienti si è ricorso a salse attuali, universalmente affermate
e accettate, mediante una libera interpretazione in chiave moderna del
"GARUM", adatte a carni o a verdure lesse, potendo ricorrere tanto
alla "Worcester Sauce", quanto ad una salsa
a base di alici, prezzemolo, aglio, capperi, olio e aceto a mo’ di "IUS IN
ELIXA" (salsa per bolliti), oppure alla classica "vinaigrette"
semplice a base di olio, aceto (o limone), o ricca mediante aggiunta di senape
e, volendo, di salsa di alici.
Per
gli arrosti si è fatto ricorso ad un condimento che gli antichi romani avrebbero
potuto chiamare "IUS IN ASSA" (salsa per arrosti) fatta di olio,
aceto, aglio, timo, alloro, tabasco, sale e due
cucchiai da minestra di miele.
L’agrodolce,
caratteristica onnipresente nella cucina romana antica, non in quella dei
primordi, di Catone il Censore, che spartanamente si condiva l’insalata di
broccoli o cavolfiori con soli aceto e sale, escludendo l’olio a quei tempi
costoso, è rimasto un po’ anche nella nostra gastronomia. Le cipolline in
agrodolce , la classica mostarda di Cremona a base di frutta candita in uno
sciroppo senapato, il pizzico di zucchero nel ragù o di sale nella pasta di
taluni dolci, non sono forse retaggio di quell’antichissima
usanza risalente ai romani antichi?
Un
po’ problematico è stato rendere in latino il termine italiano
"rinfresco" incompatibile con il costume dei romani antichi, che in
epoca arcaica usavano mangiare seduti, più tardi comodamente distesi sui letti tricliniari alla maniera etrusca, o semplicemente seduti su
sedie o sgabelli, ma soltanto nelle osterie, trattorie e bettole.
Ristorarsi
"in piedi" era per un romano proprio soltanto della breve refezione
fredda del mezzogiorno, detta "PRANDIUM", in cui consumava gli avanzi
della cena del giorno prima a base di carne, verdure e pane. Il filosofo Seneca lo definisce "SINE MENSA PRANDIUM POST QUOD NON
SUNT LAVANDAE MANUS" , un pasto in piedi dopo il quale (poiché i romani, e
gli antichi in genere, mangiavano in punta di dita, come prescriveva
l’etichetta, dopo aver tagliato la carne a pezzetti) non c’era neppure bisogno
di lavarsi le mani!
Ci è
sembrato pertanto opportuno rendere in latino l’idea moderna di
"rinfresco" con la perifrasi "MENSA PRO CONVENTORUM AUDITORUM
REFECTIONE EPULIS EXTRUCTA", letteralmente: "tavola imbandita di
vivande per il ristoro degli uditori intervenuti".
Per
il menù di un rinfresco ovviamente non ci sono "FERCULA" (le portate)
dei banchetti, ma piatti bell’e pronti. Si è
provveduto a che, in ossequio al detto conviviale latino"DE OVO USQUE AD
MALA", traducibile : "dall’antipasto al dessert", fossero
presenti nel menù antipasti, zuppe, torte salate, legumi, verdure lesse, carni
arrostite o lesse, dolci e frutta, attenendoci ad una regola fondamentale che
esclude l’uso di quei generi alimentari inesistenti in epoca etrusco-latina perché importati in Europa successivamente
alla scoperta dell’America. Ci sembra inoltre opportuno evidenziare che
alimenti attuali come legumi, verdure, carni, frutta e, più marcatamente, vini,
hanno nei secoli subito tali e tante trasformazioni biologiche e modificazioni
selettive dovute alla sempre più progredita tecnologia applicata
all’agricoltura, all’allevamento del bestiame ovicaprino,
bovino e suino e dei loro derivati, che oggi il nostro palato mal tollererebbe
l’antico sapore , sicuramente più selvatico e primitivo, che duemila anni or
sono quegli stessi alimenti avrebbero potuto offrire al palato degli etrusco-latini.
La
nostra rassegna di pietanze potrebbe definirsi una rivisitazione in chiave
moderna di ciò che la cultura gastronomica etrusco-latina
può teoricamente e materialmente offrirci.
Tratto
distintivo dell’attuale cucina mediterranea rispetto a quella etrusco-romana, di cui siamo debitori è, in un certo qual
modo, il ritorno, in fatto di ingredienti e salse, ad una più accentuata
semplicità che doveva forse caratterizzare quella etrusca, almeno da quanto
possiamo indovinare analizzando le rappresentazioni pittoriche degli ipogei, e
quella romana dei primi tempi, alla sobrietà e all’equilibrio di varie
combinazioni di ingredienti avulse dalle esasperazioni e dalle eccentricità
della stravagante cucina apiciana e dagli eccessi
dello sfarzo, del lusso sfrenato (in latino "LUXURIA"), degli inutili
sprechi, della mania di teatralità dell’aristocrazia romana, insomma a quella
frugalità che era nei voti e nelle attese di Marco Porcio
Catone (234-149 a.C.), detto "il censore", che respingeva la
"LUXURIA" e l’ostentazione dei ricchi, auspicando un ritorno alla
parsimonia e alla morigeratezza proprie della società romana delle origini. Una
delle sue opere, "Praecepta ad Marcum filium", rappresenta
una sorta di enciclopedia o, se si vuole, di raccolta di trattatelli
che andavano dalle raccomandazioni terapeutiche a quelle agricole, inizialmente
concepita per l’educazione del figlio, ma idealmente indirizzata alla gioventù
romana. Oggi abbiamo problemi nutrizionali di altra natura, un eccessivo
consumo di prodotti industriali confezionati da consumarsi rapidamente , quali
merendine e affini, in omaggio alla civiltà del progresso.
Non
per fare del salutismo a buon mercato, ogni eccesso a lungo andare potrebbe
comportare conseguenze dannose per la salute delle presenti e future
generazioni. Per gli antichi romani le ebbero l’uso eccessivo di salse drogate
e speziate, il consumo di carni conservate sotto
sale, di bestie ammalate, di troppe verdure, l’incerto o cattivo stato di
conservazione degli alimenti, dell’acqua inquinata benchè
bollita, il relativo squilibrio della dieta alimentare che comportava carenze
vitaminiche, l’abuso del vino, che provocavano, per quel che ne sappiamo dagli
stessi autori latini, mal di ventre, bruciori e acidità di stomaco, alitosi,
nonché carie dentarie e obesità tale da far dire ai tradizionalisti che i
romani avrebbero finito per assomigliare sempre più all’"obesus etruscus".
Un piatto
"giusto" riesce a valorizzare i sapori degli ingredienti originari
senza indulgere in formule culinarie estrose e sofisticate per "épater le bourgeois", far
colpo sulla gente. L’originalità creativa non può e non deve mortificare il
gusto, l’equilibrio degli insiemi, principio sempre da osservare.
Ma,
a questo punto, chi era il creatore delle leccornie e delle prelibatezze, delle
ricercatissime salse e dei complicati intingoli che allietavano i banchetti dei
romani ai quali ci siamo parzialmente ispirati attenendoci ai criteri
suesposti?
Apicio
fu l’avversario ideale nell’arte culinaria dei paladini dell’arcaica e frugale
cucina tradizionale, dei quali uno dei massimi esponenti fu Catone il Censore.
Marco
Gavio Apicio nacque, forse,
nel 25 a.C. e visse durante il regno dell’imperatore Tiberio durato ventitrè
anni dal 14 al 37 d.C.
Raffinato
gourmet pare andasse a pescare con una nave privata gamberi di grandezza fuori
del comune fin lungo le coste libiche, e avesse dilapidato in banchetti
sontuosi e follie culinarie una fortuna pari a sessanta milioni di sesterzi. Allorchè riscontrò che non gli restavano che dieci milioni
di sesterzi, calcolando che la somma restante non sarebbe bastata a
consentirgli quel tenore di vita così dispendioso, si suicidò avvelenandosi .
Seneca
con tipico "ITALUM ACETUM", che oggi definiremmo senso dell’umorismo,
scrisse che, a parer suo, la pozione di veleno bevuta da Apicio
fosse la più salutare fra quante da lui inventate.
Apicio
forse scrisse due libri, uno sulle salse, l’altro sui cibi, sotto forma di note
e di appunti per tenere a mente i manicaretti inventati, benché non fosse un
cuoco di professione, ma un fine buongustaio, appassionato dell’arte culinaria.
Un
grosso limite per chi voglia riprodurre queste ricette è nella mancanza di dosi
degli ingredienti, spiegabile, almeno in parte, con l’individualismo spinto e
la gelosa segretezza delle proprie invenzioni dei cuochi d’ogni tempo e paese,
ma anche perché i cuochi romani erano al servizio di patrizi i quali imponevano
loro i propri gusti. Per quel che riguarda Apicio,
essendo probabile che cucinasse personalmente le proprie specialità,
conoscendone a memoria le dosi, riteneva forse superfluo scriverle.
Successive
aggiunte e interpolazioni di cuochi e copisti hanno fatto sì che il trattato di
Apicio "De re coquinaria"
così come ei è pervenuto non è più quello originariamente concepito
dall’autore, e il latino della redazione finale è stato definito dai linguisti
un "latino da cucina", una specie di latino maccheronico per
intenderci. Nasce allora spontanea una riflessione.
Se
l’opera in nostro possesso fosse stata redatta nel latino di Apicio gli specialisti non avrebbero avuto da eccepire
sullo stile. Sennonché coloro che successivamente operarono aggiunte all’opera
usarono un latino più popolare, più semplice di quello letterario, il latino
insomma di gente poco colta.
Da
generazione in generazione la lingua latina principiando da uno stile arcaico,
asciutto, scarno e scevro di eleganza formale, ma incisivo, efficace e ricco di
contenuti di Catone il Censore, trasmutò in uno stile elegante, ricercato,
raffinato, impreziosito dalla cultura greca, per giungere, dopo un arco di
molti secoli e di relative metamorfosi al latino detto "volgare",
parlato dalla gente che non va a scuola o ha letto pochi libri, da cui
discendono direttamente le lingue cosiddette "neolatine", in
particolare il nostro italiano, originato principalmente dall’idioma di una
regione fra le tante parlate locali e dialetti regionali.
Orbene
per la gastronomia è avvenuto nei secoli un processo parallelo e per molti
aspetti analogo a quello linguistico. Probabilmente nel processo evolutivo
delle consuetudini culinarie e gastronomiche degli Etruschi, degli altri popoli
italici confinanti o meno, latini compresi, giù giù
fino a quelli più meridionali della Magna Grecia, i tratti fondamentali,
distintivi, tipici e regionali delle antiche gastronomie hanno retto ai secoli
e oggi rivivono nelle diverse cucine regionali che ne sono legittime eredi
nonché autentiche depositarie.
Trattando
di archeologia gastronomica dobbiamo rifarci alla scoperta di piatti a lungo
ignorati delle numerose cucine locali, delle antiche ricette sconosciute o
semisconosciute, spesso rozze e povere, ma dai sapori originari, semplici e
tuttavia straordinariamente essenziali, non ancora contaminate da manipolazioni
di taluni "maestri" dell’ingegneria culinaria che si ingegnano di
presentarle come "novità".
L’arte
culinaria ha un suo modo, anzi tanti modi di esprimersi, analogamente al
linguaggio e pertanto può considerarsi un mezzo per comunicare che non riguarda
la sola sfera fisiologica o biologica dell’alimentazione, ma anche quella
intellettuale, culturale e psicologica, allorché in un piatto "fatto come
Dio comanda" palato e mente del fruitore trovano all’unisono soddisfazione
e appagamento percependo il messaggio di chi l’ha approntato, favorendo tra i
destinatari il dialogo, lo scambio di impressioni e riflessioni originate dalla
degustazione, dialogo che via via allargandosi in
ogni direzione e campo culturale travarica la sfera
dell’arte culinaria pura e semplice.
Duemila
e più anni fa etruschi e romani (e tutte le genti della terra) considerarono il
banchetto o convivio, l’occasione per stare insieme, fare commercio di idee e
di esperienze, rapportarsi sul piano umano e sociale, malgrado le " trimalcionate", le umane debolezze, le figuracce,
l’ostentazione pacchiana del fasto e del lusso sfrenati di un Trimalcione, liberto arricchito e smodato anfitrione, il
cui mondo il capolavoro autobiografico di Petronio Arbitro di Eleganza, il
"SATIRICON", ci ha brillantemente e argutamente descritto, disvelandoci al tempo stesso i paradossi e le
contraddizioni della società romana del suo tempo, i drammi, la farse, le
ambiguità, i misteri, le miserie, facendoci fare un viaggio di quasi due
millenni a ritroso nel tempo.
Nonostante
il trascorrere dei secoli pranzare o cenare insieme resta sempre un momento di
grande calore umano e di civiltà, il superamento dell’uomo solo che mangia da
solo per sfamarsi spinto da una necessità fisiologica. E’ il rinnovarsi in
forma di rito profano collettivo, stavolta in onore della solidarietà umana,
che si origina dal rituale del banchetto sacro dove si sacrifica e si liba in
onore della divinità, e in cui il sacerdote officiante è ora il cuoco, il
consolatore, il tramite fra noi e la paura dell’ignoto futuro, fra il corpo e
lo spirito, fra la mensa imbandita simbolo rassicurante della terra e della vita
con i suoi frutti copiosi, e il soffitto della sala del banchetto da cui
l’antico ricco anfitrione faceva piovere petali di fiori o pendere e ruotare
sbalorditivi congegni sulle teste degli invitati, e che simboleggia il cielo
dall’alto del quale la terra riceve calore e pioggia vivificatrice per produrre
i frutti di cui quotidianamente gli uomini di due millenni fa si nutrivano, di
cui noi pure uomini del ventunesimo secolo ci nutriamo e i nostri figli, i
figli dei nostri figli e le generazioni future – è nei nostri voti –
continueranno a nutrirsi.
LIBRORUM DESCRIPTIO
(Bibliografia)
1.
- Antonietta Dosi – François Schnell. "A tavola con i Romani Antichi"- Roma
1984 – Edizioni Quasar.
2.
- J. Innes Miller.
" Roma e la via delle spezie "- Torino 1974 – Giulio Einaudi Editore.
3.
- Apicii Coelii.
" De obsoniis et condimentis sive arte coquinaria" – Venetiis excudit Joseph Antonelli – MDIIILII Roma –Edizioni Residence.
4.
- Lucio Giunio Moderato Columella.
" L’arte dell’agricoltura e libro sugli alberi "- Torino 1977 – Einaudi Editore.
5.
- Ministero per i
Beni Culturali e Ambientali. A.A.V.V. "
L’alimentazione nel mondo antico – Gli Etruschi".
6.
Roma 1987 – Istituto
Poligrafico e Zecca dello Stato – Libreria dello Stato.
7.
- Ministero per i
Beni Culturali e Ambientali – A.A.V.V.
"L’alimentazione nel mondo antico – I Romani – Età imperiale"
8.
Roma 1987 – Istituto
Poligrafico e Zecca dello Stato – Libreria dello Stato.
9.
- Regione Lazio
Assessorato alla Cultura – A.A.V.V. "L’Etruria meridionale – Conoscenza, Conservazione, Fruizione"-
10.
Atti del Convegno –
Viterbo 29/30 Novembre – 1 Dicembre 1985 – Roma 1988 – Casa Editrice Quasar.